mercoledì 4 gennaio 2012

Quando a parlare sono i mafiosi ... ovvero la mafia come "effetto di stato"

Renato Guttuso, Campieri (1949)
Da sempre - cioè dai primi anni post-unitari, quando l'oggetto è stato identificato e soprattutto nominato - i sociologi sono in prima linea nello studio della mafia. Con un po' di audacia, si potrebbe quasi dire che la mafia sia stata una invenzione sociologica. Almeno, è un effetto dello sguardo sociologico la "mafia" che siamo venuti a definire e riconoscere, come fenomeno sociale sui generis. Sorprende in effetti che la storia della mafia scorra in parallelo da un lato a quella dello stato nazionale e liberale, dall'altro a quello delle scienze sociali, e in particolare della sociologia, che proprio negli anni post-unitari entrano e si diffondano nella cultura scientifica e anche politica della nuova Italia. Sociologi furono i primi grandi studiosi della mafia, come Napoleone Colajanni e Gaetano Mosca, le cui interpretazioni ed analisi hanno dato legittimità accademica allo studio di un fenomeno facilmente preda di speculazione giornalistica. Non sociologi, ma informati della sociologia (positivista) e delle sue teorie e dei suoi metodi erano gli intellettuali che hanno contribuito all'identificazione della mafia negli anni '70 dell'Ottocento, come Pasquale Villari e Leopoldo Franchetti. Non sociologi di professione, ma cultori di sociologia criminale (e quindi seguaci di Lombroso e Ferri) erano Giuseppe Alongi e Antonino Cutrera, ufficiali di polizia cui si devono i primi studi approfonditi della mafia, rispettivamente nel 1887 e 1900. Da allora, la ricerca sulla mafia si è molto ampliata ed estesa. Come la mafia stessa, peraltro. Non è questa la sede per tentare una ricostruzione a tutto campo della letteratura sociologica sulla mafia - ricostruzione che peraltro ancora manca. Questo post ha un altro e assai più circoscritto obiettivo, e cioè dichiarare un’insoddisfazione ed esplicitare un’insofferenza.




L'insoddisfazione è nei confronti dell’attuale ricerca sociale sulla mafia, dei suoi silenzi, delle sue incomprensioni, delle sue inconfessate priorità, dei suoi spesso celati pregiudizi. La ricerca sulla mafia non è un blocco omogeneo, naturalmente, e le ragioni di dissenso e persino conflitto intellettuale non mancano qui come in altri campi di studio. Ma dietro a questo dissenso e ai piccoli e meno piccoli contrasti intellettuali si staglia un consenso di base, una doxa direbbe Bourdieu, secondo cui la mafia è un fenomeno deviante, criminale, abominevole, ma non irrazionale. Anzi, la mafia è un fenomeno molto razionale, così razionale che il modo migliore per comprenderla è forse proprio quello di applicare ad essa l’apparato analitico della teoria economica, con i suoi modelli di scelta razionale e di analisi costi-benefici.

La mossa è di quelle che funzionano, come ha dimostrato recentemente il successo incontrato da un libro che non alla mafia ma a un fenomeno storico ad essa comparabile, la pirateria sei- e settecentesca, estende in modo analiticamente forse non rigorosissimo ma letterariamente affascinante, il “modo di ragionare economico” inaugurato da Adam Smith, in particolare con la sua dottrina della mano invisibile – e “uncino invisibile” è infatti il dispositivo metaforico che l’autore, l’economista  Peter T. Leeson, congegna per rendere conto delle molte istituzioni che hanno reso leggendario il mondo dei pirati – dalla bandiera nera con il teschio allo spirito democratico che governava le navi pirata e persino alla tolleranza che ha fatto delle medesime navi, quando il fiorente  commercio degli schiavi stava ancora plasmando quel Black Atlantic di cui oggi si celebrano i ricchi retaggi cultural, alcuni dei primi spazi di incontro interrazziale.

Qualche anno prima, questa mossa venne tentata con minor successo popolare ma altrettanto se non maggiore successo accademico e intellettuale, dal sociologo italiano (inglese d’adozione) Diego Gambetta, con la sua teoria della mafia come industria della protezione privata. Il libro di Gambetta portava a compimento, svolgendo integralmente, una tendenza da tempo invalsa negli studi sulla mafia, la tendenza a leggere quest’ultima come un parto della modernità, e in particolare dell'espansione del capitalismo: era la tesi della mafia imprenditrice, portata al successo nei primi anni ottanta da Pino Arlacchi e però anticipata dagli antropologi americani Jane e Peter Schneider, nonché sviluppata dal sociologo Raimondo Catanzaro. 

Quello che è andato perduto in quella stagione di studi sulla mafia è un dato essenziale, e cioè l’origine popolare della mafia medesima in quanto “spirito” (o cultura), e con lei l’origine popolare dei suoi umani portatori. Ma, si dirà: non è la mafia una forma distorta di borghesia (Santino) o di classe media, magari appunto violenta (Pizzorno)?  Henner Hess aveva colto nel segno quando aveva definito la mafia una tecnica, o strategia di mobilità sociale…ma aveva frainteso quando da questa intuizione ricavava il corollario che il mafioso era dunque parte della classe media. Il mafioso è mobile, questo è certo, ma non perde in questa ascesa i tratti - soprattutto i tratti culturali - della sua origine sociale popolare. Il fatto è che i mafiosi non esibiscono alcuni dei tratti considerati essenziali per la qualificazione di una identità sociale come identità borghese: una certa educazione e istruzione, un certo stile di vita, un certo standard minimo di valutazione della qualità della vita…Il fatto che i mafiosi si collochino nelle fasce alte di disponibilità del reddito non li rende per questo borghesi né di “classe superiore” – almeno nei termini in cui si intende questa “superiorità” negli studi sociologici standard. (Manca ai mafiologi la conoscenza della ricca letteratura storiografica sulle borghesie, si direbbe).
MAFIA PRIMI PIANI
Giuseppe Genco Russo (Mussomeli, 1893-1976),
considerato uno dei grandi capimafia dell'Italia del secondo dopoguerra

Se è una élite, quella mafiosa non è certo una élite borghese…è una élite, però: ma che élite? La mia risposta è semplice: è una élite politica, la cui superiorità si basa sul possesso di un particolare tipo di capitale, o meglio di una particolare composizione di capitale. Che non è economico, e nemmeno sociale (entrambi ci sono, ma non sono alla base della posizione e nemmeno della identità mafiosa), bensì culturale e simbolico, persino emozionale. Onore, prestigio, reputazione: questo è capitale simbolico. Ma prima di questo c'è un capitale culturale, una familiarità con  tecniche e codici: dall'uso delle armi e dei gesti a quello anche più importante delle parole e dei silenzi. E' un capitale che spesso si apprende in famiglia, come ogni capitale culturale (così Bourdieu, che del concetto è autore). Capitale emozionale è invece quello che consente di superare una delle prime, se non la prima, delle prove cui l’aspirante mafioso deve sottoporsi: la prova della violenza. La violenza non è qualcosa di immediato, non tutti sanno essere violenti …anzi, come Randall Collins ha dimostrato, la violenza è qualcosa che è particolarmente difficile da praticare, tanto più in modo sistematico e controllato, preciso, efficace. Ci vuole sangue freddo…capitale emozionale appunto. Anche questo si trasmette, si apprende.

Se l’insoddisfazione è la prima molla che mi ha indotto a scrivere questo post (e i miei lavori sulla mafia, tra cui ricordo qui solo il libro La voce del padrino. Mafia, cultura e politica, Verona, Ombrecorte 2007), la seconda è invece l’insofferenza nei confronti una diffusa tendenza negli studi culturali e politici contemporanei a leggere nella cultura popolare, nella cultura dei subalterni, solo impulsi di resistenza e progetti di progressiva emancipazione. Come se l'illuminismo e il socialismo fossero la naturale e scontata struttura ideologica di una genuina e consapevole condizione popolare. Come se idee e concezioni di tipo conservatore - siano esse magiche, autoritarie, paternalistiche,  familistiche o più banalmente tradizionalistiche - dovessero necessariamente essere forme residuali o inerzie in attesa di superamento.

La mia tesi è semplice: la mafia come noi la conosciamo è lo sviluppo organizzativo di una strategia di resistenza popolare (subalterna, in termini gramsciani) al controllo dello stato, resistenza che non ha però i tratti di una strategia di emancipazione collettiva, di classe. La mafia è una manifestazione locale di anarchismo - e non a caso i legami tra mafia e ambienti anarchici erano a fine ottocento piuttosto significativi, come testimonia il caso di Vito Cascio Ferro. Si pensi al codice dell'omertà, secondo cui - così recitano le definizioni classiche - è infame colui che ricorre alla giustizia statale per la riparazione di un torto subito: in altre parole, un invito al ricordo all'azione diretta, uno dei cardini del pensiero anarchico. E la promessa di reciproco aiuto che costituisce la ragione d'essere o meglio il pilastro istituzionale delle associazioni mafiose sin dalle prime testimonianze ottocentesche ricorda immediatamente il mutual aid delle associazioni anarchiche. L'atteggiamento mafioso nei confronti dello stato ha evidenti toni anarchici. Ma quella mafiosa è una strategia di emancipazione individualistica, o meglio familistica: e quindi esclusivista, se non usurpativa (su questi concetti hanno scritto molto e bene i sociologi neoweberiani, da Parkin a Collins), che punta alla costruzione di nicchie di privilegio, di situazioni di vantaggio che tale può essere solo nella misura in cui non è condiviso da tutti, e che opera attraverso repertori di azione collettiva e forme istituzionali che sono intrinsecamente non-statuali, se non anti-statuali. Precedenti alla modernità, in parte, ma non necessariamente pre-moderni nel senso di superati. Anzi, per molti versi potrebbero dirsi post-moderni! Non ha senso dirla una forma distorta perché questo significa semplicemente accettare normativamente uno standard di vita, e di organizzazione, come migliore o più buono o più giusto di altri. Naturalmente anche io preferisco vivere in un mondo dove non si muore ammazzati e si rispettano delle regole pensate e attuate per il bene collettivo. La cosiddetta società civile è un valore che io stesso come cittadino desidero che sia difeso e promosso. Ma questa certezza assiologica non mi aiuta a capire la mafia e le sue ragioni (quelle dei mafiosi e di coloro che ad essi si rivolgono) più di quanto mi aiuti a capire la corruzione, il terrorismo, i poteri occulti che si annidano in ogni democrazia contemporanea, così come le guerre a cui le democrazie continuano comunque a partecipare e a contribuire con la forza non solo dei loro ideali ma anche delle loro armi e tecnologie, e le tante grandi o piccole forme di inciviltà e di violenza di cui leggiamo ogni giorno sui giornali.

Non è una provocazione intellettuale ma una questione che sento di dovermi porre, e di porre al lettore (e ai miei colleghi sociologi): cosa ne facciamo delle tante prese di posizioni intellettuali a favore delle culture popolari e subalterne quando riconosciamo che anche in queste si annidano forme di potere, e non necessariamente  in senso “progressivo”… quando spostiamo l’attenzione dai più deboli dei cosiddetti deboli (perché subalterni) a quelle minoranze forti - e forti perché organizzate, secondo l'intuizione di un siciliano doc come Gaetano Mosca - che da quella cultura subalterna vengono e di quella cultura sono comunque esponenti…la ragione dei deboli non è uniforme, né uniformemente segnata da una condizione di subalternità che rende difficile far sentire la propria voce e la propria parola. Ho scritto “voce” e “parola” non a caso. Can the subaltern speak? è la domanda che Gayatri C. Spivak ha posto in un ormai classico saggio. Il problema che pone la critica letteraria indiana, traduttrice di Derrida e voce autorevole del cosmo intellettuale postcoloniale,  è di grande momento. Ma se la ragione dei subalterni è anche la ragione di chi scrive per sfuggire al controllo del potere istituzionale dominante, quello dello Stato, cosa fanno i mafiosi dai tempi di Provenzano almeno se non scrivere ("pizzini") per sfuggire a questo controllo? E per controllare le loro attività senza il rischio di essere sorpresi dallo stato? 


Copia di un "pizzino" di Bernardo Provenzano
























                        

Ora, se lo Stato controlla o persino combatte e reprime le masse operaie e contadine, allora quello Stato è "cattivo", "regressivo", "autoritario". Se invece quello stesso Stato combatte "uomini d'onore" le cui radici affondano di fatto nello stesso mondo sociale subalterno ma le cui azioni si muovono in un orizzonte altro rispetto al modello normativo dello stato (di diritto), allora lo Stato è "buono" e "progressista". Eppure la storiografia e la stessa sociologia ci dicono che quello stesso Stato non ha esitato in passato e non esita tuttora, nella sua prassi istituzionale, ad aggirare le sue stesse norme formali e ufficiali, e a servirsi nel backstage, quando la "ragion di stato" lo esige, di quegli stessi metodi, e a volte di quegli stessi uomini, che nel frontstage criminalizza come "mafiosi".   Basterebbe questo, mi pare, a sostenere le ragioni di una sociologia della mafia fondata su un'etnografia, un'antropologia dello Stato in quanto pratica organizzata (e "mitizzata") di gestione del potere. Il legame tra mafia e stato è però in primo luogo epistemologico: perché è solo nella cornice interpretativa definita dall'accettazione dello stato come forma ultima e massimamente legittima del politico che si può percepire, identificare quella deviazione dal modello dello Stato che è appunto la mafia. Con una battuta ad effetto, direi che la mafia è  dunque - mi si perdoni il bisticcio - un "effetto di stato", e questo sia perché lo stato produce e riproduce la mafia con le sue stesse strategie occulte di funzionamento, sia perché senza la presenza dello Stato come modello istituzionale, e in particolare della sua variante liberale e costituzionale moderna,  non si darebbe la possibilità cognitiva della mafia.

Se la mafia è un effetto di Stato, la sociologia della mafia presuppone logicamente una seria riflessione sociologica sullo Stato. Invece di puntare il loro occhio investigativo sullo Stato e le sue contraddizioni o meglio i suoi limiti, i sociologi che studiano la mafia amano però puntarlo altrove: sui problemi del capitalismo, sui retaggi del feudalesimo, sui deficit di senso civico che caratterizzerebbero la società siciliana, o - da ultimo - sulla struttura dei diritti di proprietà e sulla carenza di fiducia endemica in certe regioni del mondo. Lo Stato, per chi studia la mafia, è incredibilmente trasparente, non problematico, attore super partes, "stupenda creatura" come lo definiva un giurista siciliano che della mafia (così come della "crisi dello stato", peraltro) aveva una qualche esperienza, il tanto bistrattato (dal sociologo Gambetta) Santi Romano. Eppure, Santi Romano, allievo di Vittorio Emanuele Orlando, è stato uno dei più insigni teorici e tecnici dello Stato (di diritto, appunto) che la nuova Italia abbia avuto, esponente di punta di quella scuola italiana di diritto pubblico a cui si deve la struttura costituzionale stessa dello stato nazionale italiano. Curiosamente, è però ad un giurista come Romano che dobbiamo la prima rivendicazione teorica del carattere giuridico della mafia (come di altre associazioni criminali, a dire il vero: sul punto Romano non entra nei dettagli)  in quanto ordinamento. Da teorico dello stato giuridico, Santi Romano aveva consapevolezza dei limiti dello stato, delle ragioni storiche e anche logiche della sua "crisi" (di cui era spia anche il potere quasi pubblico acquisito ai primi del novecento dalle corporazioni sindacali).

Ma se il giurista non può fare a meno di assumere, proprio in quanto giurista e tecnico del diritto, il punto di vista dello Stato, lo scienziato sociale può davvero ancorare la propria immaginazione (sociologica) alla distinzione buono vs. cattivo senza problematizzare il punto di vista di chi stabilisce contenuti e soprattutto criteri di attribuzione di tali etichette? Sì, secondo la concezione critica della sociologia, quella di tradizione marxista, e radicale, che ha nella scuola di Francoforte e in un grande sociologo radicale come C.W. Mills i suoi rappresentanti più insigni. Si tratta di una tradizione nobilissima e di grande importanza nella storia della disciplina sociologica e anche nella sua pratica contemporanea. Solo che la sociologia critica muove dall'assunto che è il punto di vista (lo standpoint) subalterno a dover essere privilegiato. Negli studi sulla mafia, e più in generale sul crimine organizzato, lo standpoint privilegiato è però tipicamente quello dello Stato, non proprio un'istituzione subalterna.

Si radica qui, mi pare, l'ambivalenza della tradizione marxista rispetto alla mafia: forma di resistenza popolare al capitalismo (Hobsbawm) o strategia locale di espansione capitalistica (il capitalismo di mediazione dei coniugi Schneider, la mafia imprenditrice di Arlacchi ecc.)? Ed è ugualmente curioso che gli stessi sostenitori di una sociologia scientifica o professionale (per queste etichette, seppur da prospettive antitetiche, si vedano rispettivamente Boudon e Burawoy) che si vorrebbe eticamente neutrale e imparziale, scientifica appunto e non critica, quando prendono ad oggetto fenomeni criminali e soprattutto moralmente problematici come la mafia non possano fare a meno di sposare, seppur surrettiziamente (ma neppure tanto, se si pensa che a questa versione della disciplina sono associati anche nomi illustri come quello di James Coleman, che certo non ha mai negato la tensione etica e pratica alla base della propria sociologia razionalista), una concezione normativa della disciplina, chiaramente radicata in una tradizione filosofico-politico di stampo liberale classico, che assume diritti individuali e di proprietà come dati originari, e soprattutto che muove da una apparentemente limpida distinzione tra pubblico e privato che si dà storicamente solo entro il cosmo culturale della statualità moderna.

Una sociologia della sociologia della mafia - e una sociologia della filosofia politica sottesa alla ricerca sociale sulla mafia - è ciò che la sociologia della mafia non può più permettersi di trascurare. Gli strumenti non le mancano (si pensi ai lavori di Bourdieu, e di cultori angloamericani della sociologia delle idee come Randall Collins, Charles Camic, Andrew Abbott, Craig Calhoun, George Steinmetz, Michéle Lamont,  e ancora prima Alvin Gouldner). Una sociologia riflessiva della mafia, che sappia riconoscere l'inconscio politico statuale che abita la sociologia come disciplina sin dalle sue origini ottocentesche, riversandosi surrettiziamente nello studio della mafia: è questa la frontiera della sociologia della mafia, che rende quest'ultima una specializzazione strategica e potenzialmente rilevante per l'intera disciplina.  

Chi volesse saperne di più può intanto dare un occhio a quanto si dice qui: http://www.sociologica.mulino.it/journal/article/index/Article/Journal:ARTICLE:488/Item/Journal:ARTICLE:488

Marco Santoro



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