Il testo che segue è stato scritto nel 2002, e parzialmente pubblicato ne "Il Mulino" con il titolo La musica, la sociologia e 40 milioni di italiani. Lo ripubblico qui, nella sua versione integrale, senza modifiche e senza aggiornamenti bibliografici (con una sola eccezione: la prima traduzione italiana, a cura e con introduzione di chi scrive, del classico saggio di Adorno On Popular Music). Mi sembra infatti che, nonostante la crescita di interesse per la sociologia della musica degli ultimi anni (si pensi ai libri sul jazz di Davide Sparti, al recente manuale di Lello Savonardo, agli studi su musica e tecnologie di Paolo Magaudda), la situazione degli studi in questo campo resti in Italia sostanzialmente quella descritta e criticata in questo ormai lontano testo. Ritornerò comunque sulla questione in un prossimo post.
E' lunedì
mattina, e in un’aula di una buona università inglese si raduna l’intero corpo
docente della locale school di studi
economici e sociali. L’occasione è di quelle speciali: l’interview per l'assunzione di un nuovo collega per l'area della
sociologia. Cinque candidati, tutti esterni, sono già stati preselezionati.
Puntuale, alle 9,30 il favorito inizia la sua “prova orale”, secondo gli usi
anglosassoni consistente in una lezione ai potenziali futuri colleghi, seguita
da un colloquio con una commissione ristretta. Smilzo,
giacca scura e cravatta, con un’aria che lo fa somigliare vagamente a Mark
Knopfler, il chitarrista dei Dire Straits, il candidato è uno studioso già
affermato di quella formazione trans- o post-disciplinare nota nel mondo come Popular Music.
Quello
qui brevemente descritto è un evento come tanti a cui un qualunque
sociologo italiano potrebbe assistere come visiting professor in una università inglese [1]. I
suoi (molteplici) significati non dovrebbero tuttavia sottovalutarsi o peggio
ancora smarrirsi tornando a casa. Intanto,
colpisce che di cinque candidati
ad un posto di sociologia, due si presentavano come specialisti in un’area,
quella della musica, che nel nostro paese resta stretto monopolio di una
disciplina specialistica come è la musicologia (e suoi affini), sui cui
caratteri di esclusività e tradizionalismo vi è ormai un’abbondante letteratura
anche nel nostro paese. Vale la pena aggiungere che la sociologia, disciplina
di competenza di chi scrive, che è nota viceversa (anche tristemente) per la
sua accentuata inclusività, non ha certo costituito sinora una seria minaccia a
questo preteso e invero reale monopolio. Nella (scarsa) misura in cui se ne è
interessata, la sociologia italiana ha sinora visto nella musica – tipicamente
quella cosiddetta «leggera» - solo un’occasione per discutere di altro: di una
genericamente definita condizione giovanile, o delle politiche culturali o più
spesso ancora giovanili (e per lo più locali)[2], o
dell’uso del tempo libero, lasciando sostanzialmente inesplorato non solo
l’aspetto determinante della produzione musicale, ma anche quello – peraltro
essenziale per una adeguata comprensione di condizioni e politiche (giovanili o
meno) – della costituzione, proprio attraverso la musica, di identità e
gerarchie culturali.
In Italia, se
esiste una sociologia della musica, questa non è certo una (sub)disciplina
riconosciuta dalla comunità dei sociologi accademici, ma un’etichetta tra le
molte di quel grande contenitore che è la sociologia intesa come ramo del
sapere contemporaneo (e non come disciplina accademica), di cui ci si può
liberamente occupare, soprattutto se si è non sociologi ma scrittori free lance, critici, filosofi
(dell’arte), o musicologi «aperti al nuovo» e almeno un po’ dissidenti[3].
Con il risultato però che quella che viene spacciata, recepita e spesso anche
criticata per “sociologia della musica” riesce a fatica ad essere riconosciuta
come tale dal sociologo.
Condire con
qualche dato statistico e qualche vaga considerazione sulle presunte condizioni
socio-politico-culturali non rende infatti un discorso sulla musica un discorso
sociologico più di quanto non lo renda musicologico inserire in esso due righi
di una qualche partitura. Gli effetti di questa crisi di identità sociologica
nel discorso nostrano sulla musica possono facilmente misurarsi proprio sul
caso di Adorno, figura di intellettuale complessa, che in Italia è stato
recepito di volta in volta o come filosofo, o come teorico critico della
società o (ma in effetti soprattutto) come musicologo – senza che la sua
identità (da lui stesso rivendicata come primaria) di sociologo della musica
venisse mai ricostituita. E così, della sociologia musicale adorniana ci
vengono restituite (e sono propagate tramite le recensioni su quotidiani e
periodici, ad esempio) solo le letture dei suoi esegeti musicologi, che per
ragioni comprensibili stemperano il punto di vista sociologico (e la tradizione
a cui esso appartiene) nella loro prospettiva disciplinare, e si sentono di
ricavare dalle sue peraltro complesse analisi socio-musicali “ragioni”
autorevoli per uno svilimento della musica non «seria» e non «buona» - che per
Adorno coincideva peraltro con quasi tutta la musica esistente eccetto quella
di Beethoven, di Schoenberg (prima della svolta dodecafonica peraltro), Berg e
pochi altri.
Come
tutti gli autori “classici”, anche Adorno va collocato nella sua tradizione,
che non era solo musicologico-estetica ma anche, appunto, filosofico-sociale e
sociologica. Ci si dimentica troppo spesso che il vero fantasma per Adorno nei
suoi scritti musicali non era (quella che percepiva come) la musica popular, né il jazz, ma la per lui
famigerata «industria culturale», i cui tentacoli – se così li si vuole
intendere – avvolgevano già ai suoi tempi e ancor più avvolgono oggi anche la
musica cosiddetta colta di cui sono pieni i programmi delle nostre sale da
concerto e dei nostri teatri lirici. Non è questa la sede per tornare sul tanto
vituperato eurocentrisimo, snobismo o peggio ancora (presunto) razzismo
adorniano. Ma è certo che le analisi di Adorno sui rapporti tra la musica e
l'industria culturale non possono liquidarsi così facilmente, e per quanto da
rivedere, integrare e anche superare, restano un imprescindibile e ancora stimolante
punto di partenza per una sociologia della musica nella realtà contemporanea.
E’ fin troppo
facile azzardare le ragioni per cui la sociologia italiana, nella misura
(ridotta) in cui si è occupata di industria culturale, ha focalizzato la sua
immaginazione pressoché esclusivamente sulla televisione e sulla stampa
periodica, seguita a notevole distanza dall’industria libraria. Certo non ha
ritenuto opportuno focalizzarla su quella musicale, di cui era certo più
difficile definire l’appartenenza e la rilevanza politica (o meglio partitica),
e di cui difatti non sappiamo ad oggi praticamente nulla di sociologicamente
valido. Eppure, anche prima di Adorno, all'analisi della musica, della sua
produzione, del suo consumo, del suo sviluppo storico, si erano dedicati
illustri padri fondatori della sociologia (un nome per tutti: Max Weber), e
come studiosi di musica non hanno difficoltà ad identificarsi sociologi già da
qualche anno di non poco rilievo internazionale, come l'inglese Simon Frith, il
francese Antoine Hennion, e l'americano Richard A. Peterson, senza contare
Howard S. Becker, uno dei maggiori sociologi viventi (è considerato il padre,
per dirne una, della celebre labeling
theory che tanta importanza ha avuto, anche in Italia, per l'interpretazione della devianza),
egli stesso musicista ed autore di fondamentali studi sui musicisti, che dagli
anni settanta ha indirizzato un’intera progenie di allievi verso lo studio
sociologico della vita musicale, «alta» come popular.
Ritornando
al nostro aneddoto, il fatto che proprio quei due candidati fossero i favoriti nelle varie fasi della competizione suggerisce che l’occuparsi (anche
esclusivamente) di musica non costituisce in Gran Bretagna un neo per un
sociologo, nemmeno se si è un giovane sociologo e si è quindi più esposti al
giudizio altrui. Il fatto che uno dei membri più influenti della Facoltà in
questione fosse anche lui un noto studioso di popular music e
dei suoi rapporti con la politica, a suo tempo allievo di una delle grandi autorità internazionali della sociologia della musica prima nominate, non fa
che confermarlo.
Howard Becker, sociologo e pianista jazz (anni '40). |
E
in Italia? Difficile dirlo, perché non c'è qui nessuno con un curriculum del
genere, almeno non in posizioni assimilabili. Il che suggerisce due
considerazioni. La prima è che, se l'importanza di un curriculum scientifico è
anche, inevitabilmente, funzione dell'importanza socialmente riconosciuta agli
ambiti di ricerca intorno ai quali quel curriculum si è costruito, può dunque presumersi che in Gran
Bretagna la musica viene vissuta, per ragioni varie (i Beatles? il Live Aid? la
passione di Diana per Elton John?), come un oggetto socialmente più rilevante e
pervasivo di quanto non sia in Italia, dove la musica viene invece ancora e
sempre considerata come qualcosa di «speciale», la cui conoscenza deve essere
trasmessa da una generazione all'altra in scuole e corsi «speciali»
(conservatori, scuole di musica, corsi di laurea ad indirizzo musicologico), da
docenti che si sono ugualmente formati in modo «speciale», per allievi che si
sentiranno dunque inevitabilmente un po' «speciali». La seconda considerazione
è legata ad un fattore che, come sappiamo e come meglio vedremo, è spesso
associato alla musica, soprattutto al suo consumo: l'età. Forse, non è privo di
conseguenze che l'organizzazione della carriera universitaria in Gran Bretagna
riconosca autonomia scientifica al giovane studioso in una misura impensabile
nel sistema accademico italiano. Se questo rimanda anche a quell'imponderabile
che è il valore intellettuale del singolo, è però al meccanismo istituzionale
che dobbiamo guardare, al fatto che, forse, l'importanza socialmente
riconosciuta allo studio della musica nell'università è anche conseguenza di
una maggiore efficacia istituzionale riconosciuta a coloro che alla musica
attribuiscono notoriamente più importanza, i giovani.
Come gli
argomenti scelti per la lezione dai due candidati ancora suggeriscono,
occuparsi di musica non significa dunque occuparsi necessariamente di
Monteverdi, di arte della fuga o della forma-sonata, temi certamente importanti
però di presumibile limitato interesse fuori dai perimetri specialistici della
musicologia accademica, ma può voler dire anche dedicarsi a cose più vicine
alla nostra vita quotidiana come le (sub)culture dei fans, l'uso dei media, la
produzione discografica – oggetti di primario interesse per quella recente
formazione disciplinare che sono i Popular
Music Studies – che rimandano però anche, immediatamente, a questioni
cruciali per qualunque impresa sociologica, come la sociabilità (più o meno
virtuale), l'esperienza (socialmente condizionata) dello spazio e del tempo, la
regolazione politica dei processi economici, la manipolazione del consenso, le tecnologie della comunicazione, la globalizzazione (che
trova proprio nella musica uno dei suoi «campi» privilegiati), e in fondo la
costruzione stessa delle identità - individuali, collettive, istituzionali,
territoriali (comprese le sempreverdi identità nazionali).
* * *
I suoni, il ritmo, le melodie, in breve la
musica non sono insomma semplici ornamenti della vita sociale, ma ne
costituiscono una parte integrante, che solo la supremazia storica di quello
che possiamo chiamare un «paradigma visuale» – di contro ad uno «aurale» – ci
trattiene dal farci apprezzare[4]. La
realtà sociale – la nostra vita quotidiana nel mondo sociale – non sarebbe
quella che è se non fosse anche scandita e in ultima analisi costituita da suoni, da ritmi, da
musica. Come ha osservato la sociologa Tia DeNora, la musica viene
continuamente mobilitata in quanto risorsa cruciale per produrre le scene, le
abitudini, le occasioni, le routine che costituiscono la “vita sociale”[5].
I suoni, i
ritmi, la musica, diffusi dai mass media o prodotti in contesti sociali
circoscritti (al limite la nostra sola voce in una stanza) accompagnano molti
dei riti e delle pratiche quotidiane che scandiscono le nostre giornate – al
lavoro, mentre studiamo, a passeggio, nelle attività del tempo libero. Se
dunque, come ha osservato Antoine Hennion, quell’arte effimera per eccellenza
che è la musica può esistere solo mediatamente (attraverso partiture, dischi,
strumenti, concerti, repertori ecc.)[6], la
musica è però a sua volta un potente e pervasivo mediatore sociale. Si può dire
che non c’è sfera della vita sociale in cui la musica non svolga - o non possa
svolgere - un suo ruolo, non sia presente con la sua forza eminentemente
rappresentativa e connotativa, con la sua sensualità e capacità evocativa. Non
è solo che la musica pressuppone istituzioni economiche, politiche e sociali
per esistere: la musica incide su queste stesse istituzioni potenzialmente
modificandole. Così, il rapporto tra economia e musica non è da leggere solo
come condizionamento economico della musica (sotto forma di mercati, aziende
discografiche, «industria culturale» ecc.) ma anche come capacità stessa della
musica di costituire una risorsa economica. Lo hanno ben capito città come
Liverpool, Manchester o Austin (per dirne solo tre, oltre naturalmente a
Canterbury), che sulla musica (soprattutto popular)
hanno puntato per costruire una nuova immagine locale capace di attirare
turisti, e insieme infrastrutture economiche (e quindi posti di lavoro) per
riequilibrare i processi di deindustrializzazione.
Lo stesso può dirsi della
politica, il cui rapporto di simbioticità rispetto alla musica ha forti radici
nella tradizione del pensiero occidentale, da Platone sino ad Attali[7].
Come sapevano gli antichi, la musica
è infatti per sua natura un potente veicolo di comunicazione e insieme
di legittimazione: producendo emozioni, essa contribuisce alla formazione e
alla gestione delle identità collettiva. Rock, jazz, rap, ma anche la musica
cosiddetta “colta”, la lirica in passato e l’avanguardia nel presente, hanno
avuto e hanno tuttora rilevanti dimensioni politiche
nella misura in cui sono nati o sono utilizzati da attori politici o
politicamente rilevanti come strumenti simbolici di aggregazione, di
mobilitazione, di resistenza, di sovversione.
Emerge già qui l’importanza della musica, ancor prima che nella vita
politica, come medium di sociabilità: non solo perché spesso la musica è
qualcosa che si “fa insieme”, come faceva notare già Alfred Schutz in un
articolo divenuto celebre (Schutz 1952), ma perché attraverso la musica si
formano e si mantengono sentimenti di appartenenza anche tra persone che non si
sono mai viste (e il Canterbury Sound ce lo dimostra). E se la musica unisce,
essa contestualmente però divide, include in tanto in quanto esclude. Perché la
musica, come dice Bourdieu riecheggiando Kant, l’arte pura per eccellenza, che
non dice nulla e non ha nulla da dire, distingue e ci distingue come forse nessun altra espressione umana: «non c’è
nulla che permette di ribadire la propria ‘classe’ come i gusti in campo
musicale, niente attraverso cui si sia classificati in modo altrettanto
infallibile»[8].
Attraverso le scelte musicali, i gusti e le preferenze d’ascolto o di
pratica strumentale, così come le decisioni di bilancio che premiano un genere
piuttosto che un
altro, si esprimono dunque e insieme si riproducono e si legittimano le
strutture delle disuguaglianze sociali. I suoni di un gruppo, di un
ambiente, di una classe, possono così diventare i rumori di altri gruppi, altri
ambienti, altre classi. Vissuti come segni identificanti di appartenenza
sociale, che includono in tanto in quanto escludono, essi alimentano il gioco
infinito della distinzione e dell’imitazione, le due logiche che governano
sociologicamente il gusto, producendo le mode ma anche le classi, intese
appunto come classi di gusto, come classi culturali
Nonostante
queste potenzialità sociologiche, la musica continua come abbiamo detto ad
essere un tema sostanzialmente assente dall’agenda della sociologia italiana. E
così, autentiche istituzioni nazionali come l’opera lirica, il teatro alla
Scala (non solo quello di Rossini o di Verdi, ma quello di Fontana e di Muti),
Sanremo, le canzoni di Battisti, Mina e De Andrè, la musica napoletana, o anche
solo il Coro dell'Antoniano, così come il successo planetario di Pavarotti e
Bocelli (tra i pochi nomi italiani ormai noti in tutto il mondo), o ancora il
dibattito sul valore del nostro inno nazionale, con tutto ciò che implicano
rispetto alla cultura, all'economia, all'identità e anche alla politica
italiana[9],
sono a tutt’oggi nel migliore dei casi appannaggio di giornalisti, più o meno
brillanti e preparati, di qualche (raro) storico (e quindi con un fuoco
evidentemente solo sul passato), e di qualche (altrettanto raro) musicologo,
magari anche stranieri, ma certo non di sociologi (italiani), cioè di coloro
che per professione dovrebbero dedicarsi proprio allo studio delle istituzioni
sociali.
E dire che, al di là delle peculiarità nazionali, è tutto un mondo fatto di suoni che aspetta di essere indagato con gli strumenti (non solo metodologici ma anche concettuali) delle scienze sociali: che effetti stanno producendo sulla nostra vita quotidiana i media sonori, dal walkman al pc? che conseguenze hanno i gusti e le pratiche musicali nei processi di produzione delle disuguaglianze sociali? fa differenza essere un appassionato di musica (e di canzone d'autore o di rock, invece che di classica) nella prestazione scolastica, e quindi, indirettamente, nel «destino occupazionale»? che legami ci sono tra il leggere libri e l’ascoltare musica? promuovere la musica (e un cero tipo di musica) potrebbe essere un mezzo indiretto di promozione della lettura? chi controlla l'industria del disco in Italia? attraverso quali canali? e come funziona il mercato clandestino della musica, che come è noto è in gran parte nelle mani della criminalità mafiosa? che influenza hanno la musica e i musicisti sulla mobilitazione collettiva? che significati hanno la produzione e il consumo di musica per i gruppi giovanili alternativi (che sono poi gli stessi che in gran parte costituiscono oggi il movimento dei no global, e popolano i centri sociali in cui la musica è ubiqua)? cosa succede in un’aula di conservatorio? come si insegna la musica? e ancora, da quali gruppi sociali, da quali esperienze, con quali aspettative, quali valori e quali ideologie, si diventa musicisti? quali le differenze di socializzazione professionale tra i vari generi – classico, rock, jazz, dance, rap, ecc. – e che effetti hanno questi diversi modelli di carriera, non solo per la produzione musicale, ma, attraverso questa, per coloro che usano la musica, costruendo (anche) con essa la propria identità?
Sono
questi solo alcuni degli interrogativi che una riflessione sulla musica
dovrebbe porsi anche in Italia, e a cui la sociologia potrebbe fornire risposte
che siano insieme teoricamente elaborate e metodologicamente consapevoli (e
quindi, ci si può augurare, più affidabili di quelle fornite talvolta dalle
cosiddette inchieste giornalistiche). Obiettare che la sociologia ha questioni
più importanti di cui occuparsi – scegliendo a caso: l'immigrazione, la
mobilità sociale, le campagne elettorali, la criminalità – significa non solo
trascurare aspetti potenzialmente significativi di questi stessi problemi
(come, ad esempio, il ruolo svolto dalla musica, e dall'identità musicale, nei meccanismi di
esclusione/integrazione degli immigrati, o nella riproduzione sociale del
potere mafioso, o nella costruzione e nell'efficacia delle campagne elettorali,
o nella strutturazione delle diseguaglianze sociali), ma anche e soprattutto
smarrire, ancora prima dell'analisi, il senso delle grandi trasformazioni che
abbiamo sotto gli occhi, trasformazioni imposte dalla enorme diffusione dei
media, dall’aumento del tempo libero e della ricchezza, dalla espansione
dell’istruzione superiore e quindi della partecipazione culturale, dalla
politicizzazione e ritualizzazione delle identità, dalla spettacolarizzazione
della politica, e in generale dal grande sviluppo di quella che viene oggi
sempre più spesso etichettata - sfruttando un’idea del solito Bourdieu –
“economia culturale” o “simbolica”, di cui la musica è parte integrante e per
nulla secondaria.
Insomma, come
forse nessuno più di Adorno ha cercato di mostrare, la musica può essere una
cosa terribilmente seria, una forza sociale e morale che va ben al di là della
semplice funzione di intrattenimento a cui viene abitualmente confinata nel
nostro paese, e di cui l’imposta da bene di lusso per legge applicata al disco
resta notoriamente una traccia. Ma l’assenza della sociologia italiana lo è
forse ancora di più: perché suggerisce che lo stato di malessere della musica
in Italia – malessere di tipo culturale, istituzionale, in parte economico,
sulla cui esistenza tutti gli esperti concordano, e a cui da anni si cerca di
rimediare con una riforma legislativa sulla musica, attualmente in attesa di
ri-discussione parlamentare – è tale che esso non viene però evidentemente
percepito e quindi rappresentato come vero problema
sociale, neanche solo uno dei tanti a cui professionalmente si dedicano i
sociologi[10].
A
parziale giustificazione di questa assenza, ma anche come ulteriore sintomo
della sua gravità se essa dovesse persistere, può ricordarsi che, nonostante la
longevità di un discorso specificamente sociologico sulla musica (che da Adorno
e Weber può farsi risalire indietro sino a Spencer), è però solo da qualche
anno che essa ha preso a spostarsi dai margini verso il centro della
disciplina, in relazione da un lato alla crescente rilevanza al suo interno
degli studi sulla “cultura” - termine come è noto sufficientemente ampio da
poter includere ancora una volta quasi tutto, dalla religione all'arte alla
cucina, purché sia preponderante la questione del significato e delle loro
molteplici interpretazioni - dall'altro al riconoscimento della crescente
pervasività appunto della musica e in generale dell'esperienza uditiva
(rispetto in particolare a quella visiva) nel mondo contemporaneo[11].
La
musica è indubbiamente un oggetto culturale, e come tale vive oggi anche della
luce rinnovata che la «cultura» sta attirando su di sè nella sociologia come in
tutte le scienze sociali, a loro volta riflesso e insieme volani di una
diffusione del termine e dei suoi derivati nel linguaggio comune. Ma non ci
sono dubbi che, delle varie forme in cui la cultura si manifesta, la musica sia
da qualche tempo tra le più presenti e seguite, al punto che molti parlano da
tempo di un vero e proprio «boom musicale», di cui sarebbero indicatori la diffusione
delle pratiche canore e strumentali, la crescita della damanda di educazione
musicale, e naturalmente l’espansione del mercato discografico. Poichè come
subito vedremo l'Italia non sembra fare eccezione a questo trend, per quanto le
sue potenzialità siano ancora probabilmente qui da realizzare pienamente, la
reticenza della sociologia italiana rispetto alla musica è non solo una
manifestazione non secondaria di quel malessere che, si è appena ricordato,
colpisce ormai da lungo tempo la nostra vita musicale, ma rischia anche di
diventare uno dei fattori che contribuiscono alla sua riproduzione.
Perché
se c'è un compito che la sociologia della musica può assumersi in quanto sociologia, questo è proprio quello di
offrire una conoscenza e una comprensione critica del ruolo e del potere della musica nella
vita sociale, e di quello della vita sociale, economica e politica nella produzione e nella fruizione
musicale.
Marco Santoro
[1] Il
lettore (interessato o anche solo incuriosito) comprenderà che, per rispetto
della privacy dei soggetti coinvolti nell'episodio, nessun riferimento preciso
verrà qui dato, neppure di tipo bibliografico alle ricerche – in particolare quella sul Canterbury Sound – cui si fa cenno.
[2] Una
rassegna di questi studi può leggersi in M.T. Torti, Giovani e «popular musisc» nella ricerca sociale italiana, in
Rassegna italiana di sociologia», 2/2000. L’autrice, scomparsa nel 2001, è stata
sicuramente tra i migliori studiosi italiani in questo peraltro specifico e
assai circoscritto campo della sociologia musicale.
[3] Così,
sono di (etno)musicologi i due principali testi introduttivi pubblicati in
Italia in questo campo: A. Serravezza (a cura di), Sociologia della musica, Torino Edt 1980, e M. Sorce Keller, Musica e sociologia, Milano, Ricordi
1994. Per completare il panorama, peraltro, deve aggiungersi solo il volumetto
del sociologo L. Del Grosso Destrieri, La
sociologia, la musica e le musiche,
Milano, Unicopli 1988, una veloce rassegna di profili di «sociologi»,
soprattutto classici, che si sono
occupati di musica, da Comte ad Adorno, con una discussione iniziale
dell’estetica hegeliana che illumina bene, a mio parere, la debole identità
sociologica di quel poco di sociologia della musica che in Italia si è
fatta.
[4] Cfr. M. Bull, Sounding Out the City, Oxford, Berg 2000, e T. DeNora, Music and everyday life, Cambridge,
Cambridge UP 2000
[5] Cfr.
DeNora, Music and Everyday Life,
cit., libro che insieme al precedente della stessa autrice, Beethoven and the Construction of Genius,
Berkeley, University of California Press 1995, resta una delle migliori
testimonianze di cosa sia oggi la sociologia
della musica. Un suo articolo sulle differenze di genere prodotte dalla
tecnica pianistica beethoveniana è disponibile in italiano sulla «Rassegna
italiana di sociologia», 2/2000, numero curato da chi scrive, dedicato alla "nuova sociologia della musica".
[6] A.
Hennion, La Passion musical. Una
sociologie de la mediation, Paris, Metaillié 1993. Anche questo libro,
frutto di una ricerca decennale, resta tra i maggiori risultati della
contemporanea sociologia della musica. Segnalo, dello stesso autore, la recente
ricerca etnografica sulla figura dell'amatore musicale, di cui è disponibile
un’anticipazione in italiano sul citato numero della «Rassegna italiana di
sociologia».
[9]
Stupisce che ciò che risulta evidentemente chiaro all’attuale [nel 2002] Presidente della
Repubblica – e cioè l’importanza dell’inno come simbolo «banale» di identità
nazionale e fonte di aggregazione – non abbia solleticato le attenzioni del
sociologo. E chissà quale sarà il suo primo pensiero quando scoprirà che anche
l’attuale presidente del consiglio sta per «scendere in campo», questa volta
musicale, con un cd di canzoni napoletane! Sull’importanza politica di una
«banalità» come l’inno ha scritto cose illuminanti M. Billig, Banal Nationalism, London, Sage 1995.
[10]
Naturalmente, la possibilità che il malessere della musica si accompagni ad un
malessere della sociologia (italiana) in una forma di viziosa circolarità è qui non solo suggerita ma
implicitamente sostenuta.
[11]
Anche in Gran Bretagna, punto di partenza comparativo di queste note, la musica
è entrata nel novero degli oggetti di cui ci si può occupare – da sociologi o anche storici sociali – solo da pochi
anni, come dimostra il caso esemplare di Eric Hobsbawm, che ha pubblicato
originariamente (nel 1961) la sua Storia
del jazz (Roma, Editori Riuniti 1982) sotto pseudonimo. Ma ancora negli
anni ottanta, mi è stato riferito, era praticamente impossibile prendere un
Ph.D in sociologia in una università di prestigio come Oxford con una tesi
sulla musica rock.
[12]
Anche nel linguaggio comune si parla di «mondo della canzone» per intendere
l’insieme di attori e processi sociali che presiedono alla creazione,
fabbricazione e diffusione della canzone in quanto prodotto culturale: cfr. ad
esempio Ionio (1968).
[13]
Sviluppando le idee di Becker (1982) sull’arte come azione collettiva, la
prospettiva della produzione culturale, elaborata soprattutto da Peterson
(1994; 1997), mostra come la cultura sia letteralmente «fabbricata» da gruppi
occupazionali e organizzazioni produttive operanti in determinati contesti
sociali. La prospettiva è una sfida evidente nei confronti di quegli autori che
cercano di comprendere e spiegare il lavoro creativo con l’ausilio di idee come
genio o talento naturale, senza prestare attenzione alle specifiche condizioni
che consentono al talento di
venire riconosciuto ed emergere.
[14] Non
esiste ad oggi una compiuta «teoria della canzone» (non necessariamente una
teoria sociologica) per quanto vi siano già diversi materiali con cui
svilupparla (cfr. ad esempio Lomax
1970; Denzin 1971; Fabbri 1981, 1996; Hennion 1982; Salvatore 1997, e, per una
riflessione filosofica, Sgalambro 1997). Peraltro, esiste un’abbondante
letteratura sulle modalità sociali di interpretazione dei significati testuali
delle canzoni, che generalmente mostra come queste siano «consumate» senza una
loro chiara percezione, indipendentemente da problemi di lingua: vedi ad
esempio Hirsch (1971).
[15] Tra
le altre norme identificate da Fabbri, su cui avremo modo di tornare: la
sincerità (nel senso di autenticità), la difesa della privacy (a differenza dei divi dello spettacolo, compresa la
canzone di consumo), l’attenzione al testo ecc.
[16]
Estendendo alla musica alcuni risultati della sociologia della scienza,
potremmo dunque dire che è conveniente trattare le norme dei generi musicali,
più che come principi definitori degli stessi, come «vocabolari che vengono
usati dai membri nel negoziare significati per le loro azioni e per quelle dei
loro colleghi» (Mulkay 1979, trad. it. 1981, 135).
[17] Le
posizioni di Adorno – che ha descritto in più occasioni la musica popular, la musica «leggera», e i
particolare le canzoni come una merce standardizzata, prodotto essenziale
dell’industria culturale, come tale prigioniera del suoi meccanismi di ricerca
del profitto e di asservimento del pubblico (cfr. Adorno, Sulla popular music, a cura di M. Santoro, Roma, Armando 2004) – sono state presto recepite e
abbondantemente diffuse in Italia, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta,
e nei circoli culturali della sinistra (cfr. in modo esemplare AA.VV 1964;
1978). Ma si tratta di posizioni che sono oggi ampiamente contestate per il
loro esplicito etnocentrismo e normativismo (e per la forte carica ideologica
che le anima): vedi in particolare, con richiami alla letteratura, Middleton (1990), Longhurst (1995),
Martin (1995) e Negus (1997).
[18] La
canzone può essere così «canzonetta», «forma commerciale», «prodotto di
consumo», «strumento di evasione», ma anche «importante fenomeno di costume»,
«mezzo espressivo», «strumento di cultura» o appunto «forma artistica»: ecco un
campionario di etichette applicate socialmente alla canzone nella nostra
cultura, che mostrano la pluralità di prospettive interpretative aperte a chi
operi in un discorso avente la canzone come oggetto.
[19] Come
è stato notato, un campo è una entità storica oltre che un concetto sociologico
(Ferguson 1998, 598). Come noto, Bourdieu (1979; 1992) concepisce la società
come differenziata in diversi campi semi-autonomi, di cui quelli economico e
politico sono dominanti, ma quelli della produzione culturale (dal religioso
all’artistico allo scientifico) sono però influenti nella misura in cui
legittimano e mascherano il potere economico e politico. Se ciascun campo è
governato dalle sue «regole del gioco», tutti sono però strutturati
sull’opposizione tra un polo eteronomo che rappresenta il potere (e il capitale) «economico» e un polo
autonomo che rappresenta il capitale specifico di quel campo (artistico, o
scientifico o altra specie di capitale culturale).
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