martedì 3 gennaio 2012

Il sociologo e la musica, in Italia


Il testo che segue è stato scritto nel 2002, e parzialmente pubblicato ne "Il Mulino" con il titolo La musica, la sociologia e 40 milioni di italiani. Lo ripubblico qui, nella sua versione integrale, senza modifiche e senza aggiornamenti bibliografici (con una sola eccezione: la prima traduzione italiana, a cura e con introduzione di chi scrive, del classico saggio di Adorno On Popular Music). Mi sembra infatti che, nonostante la crescita di interesse per la sociologia della musica degli ultimi anni (si pensi ai libri sul jazz di Davide Sparti, al recente manuale di Lello Savonardo, agli studi su musica e tecnologie di Paolo Magaudda), la situazione degli studi in questo campo resti in Italia sostanzialmente quella descritta e criticata in questo ormai lontano testo. Ritornerò comunque sulla questione in un prossimo post.


E' lunedì mattina, e in un’aula di una buona università inglese si raduna l’intero corpo docente della locale school di studi economici e sociali. L’occasione è di quelle speciali: l’interview per l'assunzione di un nuovo collega per l'area della sociologia. Cinque candidati, tutti esterni, sono già stati preselezionati. Puntuale, alle 9,30 il favorito inizia la sua “prova orale”, secondo gli usi anglosassoni consistente in una lezione ai potenziali futuri colleghi, seguita da un colloquio con una commissione ristretta. Smilzo, giacca scura e cravatta, con un’aria che lo fa somigliare vagamente a Mark Knopfler, il chitarrista dei Dire Straits, il candidato è uno studioso già affermato di quella formazione trans- o post-disciplinare nota nel mondo come Popular Music

Ma è come sociologo che qui si presenta. All’uditorio spiega che la lezione verterà sulla costruzione di scene musicali virtuali, e che il suo caso empirico è quello del (cosiddetto) Canterbury Sound – espressione coniata alla fine degli anni sessanta dalla stampa musicale inglese per descrivere un manipolo di gruppi e musicisti (i nomi sono quelli di Caravan, Soft Machine, Robert Wyatt ecc.) che in vario modo collegati alla storica cittadina inglese stavano inventando una formula musicale ai confini tra (certo) jazz e (certo) rock. A suo tempo con decine di imitatori (qualcuno anche in Italia), dalla metà degli anni novanta questi musicisti stanno rivivendo la gloria delle origini, non più attraverso gli applausi di pubblici adoranti ai concerti ma grazie ad una rete virtuale che unisce migliaia di appassionati in tutto il mondo tra loro in contatto attraverso siti web appositamente dedicati, in cui si condividono passioni, si scambiano informazioni, dischi, e gadgets vari, e soprattutto si costruisce discorsivamente e si mantiene socialmente l’idea stessa di qualcosa come un distinto Canterbury Sound – una identità in realtà mitica, una pura “tradizione inventata”, cui si farebbe fatica a trovare un preciso referente musicologico, e alla cui costruzione il City Council di Canterbury contribuisce in vari modi, consapevole degli effetti virtuosi che da questa identità musicale possono riversarsi sull’identità (e l’economia) della cittadina.

Come da copione, la lezione è seguita dagli interventi e dalle domande di chiarificazione, o di semplice curiosità, dei membri della school. Compreso il Dean, una nota studiosa di Government, che si limita ad un’unica semplice domanda: «ma ciò di cui ci hai parlato e di cui scrivi è solo un oggetto di studio, o sei anche personalmente coinvolto?» La risposta è in realtà scontata: «sì, suono la chitarra in una rock band (che però non ha nulla a che fare con il Canterbury Sound)». Alla fine della giornata, dopo cinque lezioni e altrettante interviste individuali, il vincitore del posto di sociologia viene reso noto: non è “quello” del Canterbury Sound, ma un altro candidato, anche lui però studioso di cose musicali, e in particolare dei rapporti tra copyright e produzione di  musica. Un argomento complesso, in cui sono in gioco concezioni ormai inveterate dell’arte e dell’artista, interessi economici, regimi giuridici e, naturalmente, scelte politiche. Dei cinque il candidato più giovane, quello con meno titoli e pubblicazioni in numero assoluto (ha da poco terminato il PhD), ma la cui brillantezza espositiva ha colpito i membri della School, che hanno deciso, come talvolta succede nelle università inglesi, di preferirlo a candidati più anziani e di tutto rispetto, concedendogli quella fiducia che in Italia si è soliti dare solo dopo un lungo tirocinio accademico, e si è (almeno) quarantenni.
  
Quello qui brevemente descritto è un evento come tanti a cui un qualunque sociologo italiano potrebbe  assistere come visiting professor in una università inglese [1]. I suoi (molteplici) significati non dovrebbero tuttavia sottovalutarsi o peggio ancora smarrirsi tornando a casa. Intanto, colpisce che di cinque  candidati ad un posto di sociologia, due si presentavano come specialisti in un’area, quella della musica, che nel nostro paese resta stretto monopolio di una disciplina specialistica come è la musicologia (e suoi affini), sui cui caratteri di esclusività e tradizionalismo vi è ormai un’abbondante letteratura anche nel nostro paese. Vale la pena aggiungere che la sociologia, disciplina di competenza di chi scrive, che è nota viceversa (anche tristemente) per la sua accentuata inclusività, non ha certo costituito sinora una seria minaccia a questo preteso e invero reale monopolio. Nella (scarsa) misura in cui se ne è interessata, la sociologia italiana ha sinora visto nella musica – tipicamente quella cosiddetta «leggera» - solo un’occasione per discutere di altro: di una genericamente definita condizione giovanile, o delle politiche culturali o più spesso ancora giovanili (e per lo più locali)[2], o dell’uso del tempo libero, lasciando sostanzialmente inesplorato non solo l’aspetto determinante della produzione musicale, ma anche quello – peraltro essenziale per una adeguata comprensione di condizioni e politiche (giovanili o meno) – della costituzione, proprio attraverso la musica, di identità e gerarchie culturali.

In Italia, se esiste una sociologia della musica, questa non è certo una (sub)disciplina riconosciuta dalla comunità dei sociologi accademici, ma un’etichetta tra le molte di quel grande contenitore che è la sociologia intesa come ramo del sapere contemporaneo (e non come disciplina accademica), di cui ci si può liberamente occupare, soprattutto se si è non sociologi ma scrittori free lance, critici, filosofi (dell’arte), o musicologi «aperti al nuovo» e almeno un po’ dissidenti[3]. Con il risultato però che quella che viene spacciata, recepita e spesso anche criticata per “sociologia della musica” riesce a fatica ad essere riconosciuta come tale dal sociologo.

Condire con qualche dato statistico e qualche vaga considerazione sulle presunte condizioni socio-politico-culturali non rende infatti un discorso sulla musica un discorso sociologico più di quanto non lo renda musicologico inserire in esso due righi di una qualche partitura. Gli effetti di questa crisi di identità sociologica nel discorso nostrano sulla musica possono facilmente misurarsi proprio sul caso di Adorno, figura di intellettuale complessa, che in Italia è stato recepito di volta in volta o come filosofo, o come teorico critico della società o (ma in effetti soprattutto) come musicologo – senza che la sua identità (da lui stesso rivendicata come primaria) di sociologo della musica venisse mai ricostituita. E così, della sociologia musicale adorniana ci vengono restituite (e sono propagate tramite le recensioni su quotidiani e periodici, ad esempio) solo le letture dei suoi esegeti musicologi, che per ragioni comprensibili stemperano il punto di vista sociologico (e la tradizione a cui esso appartiene) nella loro prospettiva disciplinare, e si sentono di ricavare dalle sue peraltro complesse analisi socio-musicali “ragioni” autorevoli per uno svilimento della musica non «seria» e non «buona» - che per Adorno coincideva peraltro con quasi tutta la musica esistente eccetto quella di Beethoven, di Schoenberg (prima della svolta dodecafonica peraltro), Berg e pochi altri.

Come tutti gli autori “classici”, anche Adorno va collocato nella sua tradizione, che non era solo musicologico-estetica ma anche, appunto, filosofico-sociale e sociologica. Ci si dimentica troppo spesso che il vero fantasma per Adorno nei suoi scritti musicali non era (quella che percepiva come) la musica popular, né il jazz, ma la per lui famigerata «industria culturale», i cui tentacoli – se così li si vuole intendere – avvolgevano già ai suoi tempi e ancor più avvolgono oggi anche la musica cosiddetta colta di cui sono pieni i programmi delle nostre sale da concerto e dei nostri teatri lirici. Non è questa la sede per tornare sul tanto vituperato eurocentrisimo, snobismo o peggio ancora (presunto) razzismo adorniano. Ma è certo che le analisi di Adorno sui rapporti tra la musica e l'industria culturale non possono liquidarsi così facilmente, e per quanto da rivedere, integrare e anche superare, restano un imprescindibile e ancora stimolante punto di partenza per una sociologia della musica nella realtà contemporanea.

E’ fin troppo facile azzardare le ragioni per cui la sociologia italiana, nella misura (ridotta) in cui si è occupata di industria culturale, ha focalizzato la sua immaginazione pressoché esclusivamente sulla televisione e sulla stampa periodica, seguita a notevole distanza dall’industria libraria. Certo non ha ritenuto opportuno focalizzarla su quella musicale, di cui era certo più difficile definire l’appartenenza e la rilevanza politica (o meglio partitica), e di cui difatti non sappiamo ad oggi praticamente nulla di sociologicamente valido. Eppure, anche prima di Adorno, all'analisi della musica, della sua produzione, del suo consumo, del suo sviluppo storico, si erano dedicati illustri padri fondatori della sociologia (un nome per tutti: Max Weber), e come studiosi di musica non hanno difficoltà ad identificarsi sociologi già da qualche anno di non poco rilievo internazionale, come l'inglese Simon Frith, il francese Antoine Hennion, e l'americano Richard A. Peterson, senza contare Howard S. Becker, uno dei maggiori sociologi viventi (è considerato il padre, per dirne una, della celebre labeling theory che tanta importanza ha avuto, anche in Italia,  per l'interpretazione della devianza), egli stesso musicista ed autore di fondamentali studi sui musicisti, che dagli anni settanta ha indirizzato un’intera progenie di allievi verso lo studio sociologico della vita musicale, «alta» come popular.


Howard Becker, sociologo e pianista jazz (anni '40).
Ritornando al nostro aneddoto, il fatto che proprio quei due candidati fossero i favoriti    nelle varie fasi della competizione suggerisce che l’occuparsi (anche esclusivamente) di musica non costituisce in Gran Bretagna un neo per un sociologo, nemmeno se si è un giovane sociologo e si è quindi più esposti al giudizio altrui. Il fatto che uno dei membri più influenti della Facoltà in questione fosse anche lui un noto studioso di  popular music e dei suoi rapporti con la politica, a suo tempo allievo di una delle grandi autorità internazionali della sociologia della musica prima nominate, non fa che confermarlo.

E in Italia? Difficile dirlo, perché non c'è qui nessuno con un curriculum del genere, almeno non in posizioni assimilabili. Il che suggerisce due considerazioni. La prima è che, se l'importanza di un curriculum scientifico è anche, inevitabilmente, funzione dell'importanza socialmente riconosciuta agli ambiti di ricerca intorno ai quali quel curriculum si è costruito,  può dunque presumersi che in Gran Bretagna la musica viene vissuta, per ragioni varie (i Beatles? il Live Aid? la passione di Diana per Elton John?), come un oggetto socialmente più rilevante e pervasivo di quanto non sia in Italia, dove la musica viene invece ancora e sempre considerata come qualcosa di «speciale», la cui conoscenza deve essere trasmessa da una generazione all'altra in scuole e corsi «speciali» (conservatori, scuole di musica, corsi di laurea ad indirizzo musicologico), da docenti che si sono ugualmente formati in modo «speciale», per allievi che si sentiranno dunque inevitabilmente un po' «speciali». La seconda considerazione è legata ad un fattore che, come sappiamo e come meglio vedremo, è spesso associato alla musica, soprattutto al suo consumo: l'età. Forse, non è privo di conseguenze che l'organizzazione della carriera universitaria in Gran Bretagna riconosca autonomia scientifica al giovane studioso in una misura impensabile nel sistema accademico italiano. Se questo rimanda anche a quell'imponderabile che è il valore intellettuale del singolo, è però al meccanismo istituzionale che dobbiamo guardare, al fatto che, forse, l'importanza socialmente riconosciuta allo studio della musica nell'università è anche conseguenza di una maggiore efficacia istituzionale riconosciuta a coloro che alla musica attribuiscono notoriamente più importanza, i giovani.   

Come gli argomenti scelti per la lezione dai due candidati ancora suggeriscono, occuparsi di musica non significa dunque occuparsi necessariamente di Monteverdi, di arte della fuga o della forma-sonata, temi certamente importanti però di presumibile limitato interesse fuori dai perimetri specialistici della musicologia accademica, ma può voler dire anche dedicarsi a cose più vicine alla nostra vita quotidiana come le (sub)culture dei fans, l'uso dei media, la produzione discografica – oggetti di primario interesse per quella recente formazione disciplinare che sono i Popular Music Studies – che rimandano però anche, immediatamente, a questioni cruciali per qualunque impresa sociologica, come la sociabilità (più o meno virtuale), l'esperienza (socialmente condizionata) dello spazio e del tempo, la regolazione politica dei processi economici, la  manipolazione del consenso,  le tecnologie della comunicazione, la globalizzazione (che trova proprio nella musica uno dei suoi «campi» privilegiati), e in fondo la costruzione stessa delle identità - individuali, collettive, istituzionali, territoriali (comprese le sempreverdi identità nazionali).



                                                                            * * * 

I suoni, il ritmo, le melodie, in breve la musica non sono insomma semplici ornamenti della vita sociale, ma ne costituiscono una parte integrante, che solo la supremazia storica di quello che possiamo chiamare un «paradigma visuale» – di contro ad uno «aurale» – ci trattiene dal farci apprezzare[4]. La realtà sociale – la nostra vita quotidiana nel mondo sociale – non sarebbe quella che è se non fosse anche scandita e in ultima analisi costituita da suoni, da ritmi, da musica. Come ha osservato la sociologa Tia DeNora, la musica viene continuamente mobilitata in quanto risorsa cruciale per produrre le scene, le abitudini, le occasioni, le routine che costituiscono la “vita sociale”[5].

I suoni, i ritmi, la musica, diffusi dai mass media o prodotti in contesti sociali circoscritti (al limite la nostra sola voce in una stanza) accompagnano molti dei riti e delle pratiche quotidiane che scandiscono le nostre giornate – al lavoro, mentre studiamo, a passeggio, nelle attività del tempo libero. Se dunque, come ha osservato Antoine Hennion, quell’arte effimera per eccellenza che è la musica può esistere solo mediatamente (attraverso partiture, dischi, strumenti, concerti, repertori ecc.)[6], la musica è però a sua volta un potente e pervasivo mediatore sociale. Si può dire che non c’è sfera della vita sociale in cui la musica non svolga - o non possa svolgere - un suo ruolo, non sia presente con la sua forza eminentemente rappresentativa e connotativa, con la sua sensualità e capacità evocativa. Non è solo che la musica pressuppone istituzioni economiche, politiche e sociali per esistere: la musica incide su queste stesse istituzioni potenzialmente modificandole. Così, il rapporto tra economia e musica non è da leggere solo come condizionamento economico della musica (sotto forma di mercati, aziende discografiche, «industria culturale» ecc.) ma anche come capacità stessa della musica di costituire una risorsa economica. Lo hanno ben capito città come Liverpool, Manchester o Austin (per dirne solo tre, oltre naturalmente a Canterbury), che sulla musica (soprattutto popular) hanno puntato per costruire una nuova immagine locale capace di attirare turisti, e insieme infrastrutture economiche (e quindi posti di lavoro) per riequilibrare i processi di deindustrializzazione.

Lo stesso può dirsi della politica, il cui rapporto di simbioticità rispetto alla musica ha forti radici nella tradizione del pensiero occidentale, da Platone sino ad Attali[7]. Come sapevano gli antichi, la musica  è infatti per sua natura un potente veicolo di comunicazione e insieme di legittimazione: producendo emozioni, essa contribuisce alla formazione e alla gestione delle identità collettiva. Rock, jazz, rap, ma anche la musica cosiddetta “colta”, la lirica in passato e l’avanguardia nel presente, hanno avuto e hanno tuttora rilevanti dimensioni politiche nella misura in cui sono nati o sono utilizzati da attori politici o politicamente rilevanti come strumenti simbolici di aggregazione, di mobilitazione, di resistenza, di sovversione.




Emerge già qui l’importanza della musica, ancor prima che nella vita politica, come medium di sociabilità: non solo perché spesso la musica è qualcosa che si “fa insieme”, come faceva notare già Alfred Schutz in un articolo divenuto celebre (Schutz 1952), ma perché attraverso la musica si formano e si mantengono sentimenti di appartenenza anche tra persone che non si sono mai viste (e il Canterbury Sound ce lo dimostra). E se la musica unisce, essa contestualmente però divide, include in tanto in quanto esclude. Perché la musica, come dice Bourdieu riecheggiando Kant, l’arte pura per eccellenza, che non dice nulla e non ha nulla da dire, distingue e ci distingue come forse nessun altra espressione umana: «non c’è nulla che permette di ribadire la propria ‘classe’ come i gusti in campo musicale, niente attraverso cui si sia classificati in modo altrettanto infallibile»[8].

Attraverso le scelte musicali, i gusti e le preferenze d’ascolto o di pratica strumentale, così come le decisioni di bilancio che premiano un genere piuttosto che un altro, si esprimono dunque e insieme si riproducono e si legittimano le strutture delle disuguaglianze sociali. I suoni di un gruppo, di un ambiente, di una classe, possono così diventare i rumori di altri gruppi, altri ambienti, altre classi. Vissuti come segni identificanti di appartenenza sociale, che includono in tanto in quanto escludono, essi alimentano il gioco infinito della distinzione e dell’imitazione, le due logiche che governano sociologicamente il gusto, producendo le mode ma anche le classi, intese appunto come classi di gusto, come classi culturali

Nonostante queste potenzialità sociologiche, la musica continua come abbiamo detto ad essere un tema sostanzialmente assente dall’agenda della sociologia italiana. E così, autentiche istituzioni nazionali come l’opera lirica, il teatro alla Scala (non solo quello di Rossini o di Verdi, ma quello di Fontana e di Muti), Sanremo, le canzoni di Battisti, Mina e De Andrè, la musica napoletana, o anche solo il Coro dell'Antoniano, così come il successo planetario di Pavarotti e Bocelli (tra i pochi nomi italiani ormai noti in tutto il mondo), o ancora il dibattito sul valore del nostro inno nazionale, con tutto ciò che implicano rispetto alla cultura, all'economia, all'identità e anche alla politica italiana[9], sono a tutt’oggi nel migliore dei casi appannaggio di giornalisti, più o meno brillanti e preparati, di qualche (raro) storico (e quindi con un fuoco evidentemente solo sul passato), e di qualche (altrettanto raro) musicologo, magari anche stranieri, ma certo non di sociologi (italiani), cioè di coloro che per professione dovrebbero dedicarsi proprio allo studio delle istituzioni sociali.


 E dire che, al di là delle peculiarità nazionali, è tutto un mondo fatto di suoni che aspetta di essere indagato con gli strumenti (non solo metodologici ma anche concettuali) delle scienze sociali: che effetti stanno producendo sulla nostra vita quotidiana i media sonori, dal walkman al pc?  che conseguenze hanno i gusti e le pratiche musicali nei processi di produzione delle disuguaglianze sociali? fa differenza essere un appassionato di musica (e di canzone d'autore o di rock, invece che di classica) nella prestazione scolastica, e quindi, indirettamente, nel «destino occupazionale»? che legami ci sono tra il leggere libri e l’ascoltare musica?  promuovere la musica (e un cero tipo di  musica)  potrebbe essere un mezzo indiretto di promozione della lettura? chi controlla l'industria del disco in Italia? attraverso quali canali? e come funziona il mercato clandestino della musica, che come è noto è in gran parte nelle mani della criminalità mafiosa? che influenza hanno la musica e i musicisti sulla mobilitazione collettiva? che significati hanno la produzione e il consumo di musica per i gruppi giovanili alternativi (che sono poi gli stessi che in gran parte costituiscono oggi il movimento dei no global, e popolano i centri sociali in cui la musica è ubiqua)? cosa succede in un’aula di conservatorio? come si insegna la musica? e ancora, da quali gruppi sociali, da quali esperienze, con quali aspettative, quali valori e quali ideologie, si diventa musicisti? quali le differenze di socializzazione professionale tra i vari generi – classico, rock, jazz, dance, rap, ecc. – e che effetti hanno questi diversi modelli di carriera, non solo per la produzione musicale, ma, attraverso questa, per coloro che usano la musica, costruendo (anche) con essa la propria identità?

Sono questi solo alcuni degli interrogativi che una riflessione sulla musica dovrebbe porsi anche in Italia, e a cui la sociologia potrebbe fornire risposte che siano insieme teoricamente elaborate e metodologicamente consapevoli (e quindi, ci si può augurare, più affidabili di quelle fornite talvolta dalle cosiddette inchieste giornalistiche). Obiettare che la sociologia ha questioni più importanti di cui occuparsi – scegliendo a caso: l'immigrazione, la mobilità sociale, le campagne elettorali, la criminalità – significa non solo trascurare aspetti potenzialmente significativi di questi stessi problemi (come, ad esempio, il ruolo svolto dalla musica, e dall'identità musicale,  nei meccanismi di esclusione/integrazione degli immigrati, o nella riproduzione sociale del potere mafioso, o nella costruzione e nell'efficacia delle campagne elettorali, o nella strutturazione delle diseguaglianze sociali), ma anche e soprattutto smarrire, ancora prima dell'analisi, il senso delle grandi trasformazioni che abbiamo sotto gli occhi, trasformazioni imposte dalla enorme diffusione dei media, dall’aumento del tempo libero e della ricchezza, dalla espansione dell’istruzione superiore e quindi della partecipazione culturale, dalla politicizzazione e ritualizzazione delle identità, dalla spettacolarizzazione della politica, e in generale dal grande sviluppo di quella che viene oggi sempre più spesso etichettata - sfruttando un’idea del solito Bourdieu – “economia culturale” o “simbolica”, di cui la musica è parte integrante e per nulla secondaria. 

Insomma, come forse nessuno più di Adorno ha cercato di mostrare, la musica può essere una cosa terribilmente seria, una forza sociale e morale che va ben al di là della semplice funzione di intrattenimento a cui viene abitualmente confinata nel nostro paese, e di cui l’imposta da bene di lusso per legge applicata al disco resta notoriamente una traccia. Ma l’assenza della sociologia italiana lo è forse ancora di più: perché suggerisce che lo stato di malessere della musica in Italia – malessere di tipo culturale, istituzionale, in parte economico, sulla cui esistenza tutti gli esperti concordano, e a cui da anni si cerca di rimediare con una riforma legislativa sulla musica, attualmente in attesa di ri-discussione parlamentare – è tale che esso non viene però evidentemente percepito e quindi rappresentato come vero problema sociale, neanche solo uno dei tanti a cui professionalmente si dedicano i sociologi[10].

A parziale giustificazione di questa assenza, ma anche come ulteriore sintomo della sua gravità se essa dovesse persistere, può ricordarsi che, nonostante la longevità di un discorso specificamente sociologico sulla musica (che da Adorno e Weber può farsi risalire indietro sino a Spencer), è però solo da qualche anno che essa ha preso a spostarsi dai margini verso il centro della disciplina, in relazione da un lato alla crescente rilevanza al suo interno degli studi sulla “cultura” - termine come è noto sufficientemente ampio da poter includere ancora una volta quasi tutto, dalla religione all'arte alla cucina, purché sia preponderante la questione del significato e delle loro molteplici interpretazioni - dall'altro al riconoscimento della crescente pervasività appunto della musica e in generale dell'esperienza uditiva (rispetto in particolare a quella visiva) nel mondo contemporaneo[11].

La musica è indubbiamente un oggetto culturale, e come tale vive oggi anche della luce rinnovata che la «cultura» sta attirando su di sè nella sociologia come in tutte le scienze sociali, a loro volta riflesso e insieme volani di una diffusione del termine e dei suoi derivati nel linguaggio comune. Ma non ci sono dubbi che, delle varie forme in cui la cultura si manifesta, la musica sia da qualche tempo tra le più presenti e seguite, al punto che molti parlano da tempo di un vero e proprio «boom musicale», di cui sarebbero indicatori la diffusione delle pratiche canore e strumentali, la crescita della damanda di educazione musicale, e naturalmente l’espansione del mercato discografico. Poichè come subito vedremo l'Italia non sembra fare eccezione a questo trend, per quanto le sue potenzialità siano ancora probabilmente qui da realizzare pienamente, la reticenza della sociologia italiana rispetto alla musica è non solo una manifestazione non secondaria di quel malessere che, si è appena ricordato, colpisce ormai da lungo tempo la nostra vita musicale, ma rischia anche di diventare uno dei fattori che contribuiscono alla sua riproduzione.

Perché se c'è un compito che la sociologia della musica può assumersi in quanto sociologia, questo è proprio quello di offrire una conoscenza e una comprensione critica del ruolo e del potere della musica nella vita sociale, e di quello della vita sociale, economica e politica nella produzione e nella fruizione musicale.




Marco Santoro

                                                                          

[1] Il lettore (interessato o anche solo incuriosito) comprenderà che, per rispetto della privacy dei soggetti coinvolti nell'episodio, nessun riferimento preciso verrà qui dato, neppure di tipo bibliografico alle ricerche –  in particolare quella sul Canterbury Sound – cui si fa cenno. 
[2] Una rassegna di questi studi può leggersi in M.T. Torti, Giovani e «popular musisc» nella ricerca sociale italiana, in Rassegna italiana di sociologia», 2/2000. L’autrice, scomparsa nel 2001, è stata sicuramente tra i migliori studiosi italiani in questo peraltro specifico e assai circoscritto campo della sociologia musicale. 
[3] Così, sono di (etno)musicologi i due principali testi introduttivi pubblicati in Italia in questo campo: A. Serravezza (a cura di), Sociologia della musica, Torino Edt 1980, e M. Sorce Keller, Musica e sociologia, Milano, Ricordi 1994. Per completare il panorama, peraltro, deve aggiungersi solo il volumetto del sociologo L. Del Grosso Destrieri, La sociologia, la musica e le  musiche, Milano, Unicopli 1988, una veloce rassegna di profili di «sociologi», soprattutto classici,  che si sono occupati di musica, da Comte ad Adorno, con una discussione iniziale dell’estetica hegeliana che illumina bene, a mio parere, la debole identità sociologica di quel poco di sociologia della musica che in Italia si è fatta. 
[4] Cfr. M. Bull, Sounding Out the City, Oxford, Berg 2000, e T. DeNora, Music and everyday life, Cambridge, Cambridge UP 2000
[5] Cfr. DeNora, Music and Everyday Life, cit., libro che insieme al precedente della stessa autrice, Beethoven and the Construction of Genius, Berkeley, University of California Press 1995, resta una delle migliori testimonianze di cosa sia oggi la sociologia della musica. Un suo articolo sulle differenze di genere prodotte dalla tecnica pianistica beethoveniana è disponibile in italiano sulla «Rassegna italiana di sociologia», 2/2000, numero curato da chi scrive, dedicato alla "nuova sociologia della musica".
[6] A. Hennion, La Passion musical. Una sociologie de la mediation, Paris, Metaillié 1993. Anche questo libro, frutto di una ricerca decennale, resta tra i maggiori risultati della contemporanea sociologia della musica. Segnalo, dello stesso autore, la recente ricerca etnografica sulla figura dell'amatore musicale, di cui è disponibile un’anticipazione in italiano sul citato numero della «Rassegna italiana di sociologia».
[7] J. Attali, Rumori, Milano, Mazzotta 1977.
[8] P. Bourdieu, La distinzione, Bologna, Il Mulino 1983, p. 19.
[9] Stupisce che ciò che risulta evidentemente chiaro all’attuale [nel 2002] Presidente della Repubblica – e cioè l’importanza dell’inno come simbolo «banale» di identità nazionale e fonte di aggregazione – non abbia solleticato le attenzioni del sociologo. E chissà quale sarà il suo primo pensiero quando scoprirà che anche l’attuale presidente del consiglio sta per «scendere in campo», questa volta musicale, con un cd di canzoni napoletane! Sull’importanza politica di una «banalità» come l’inno ha scritto cose illuminanti M. Billig, Banal Nationalism, London, Sage 1995.
[10] Naturalmente, la possibilità che il malessere della musica si accompagni ad un malessere della sociologia (italiana) in una  forma di viziosa circolarità è qui non solo suggerita ma implicitamente sostenuta. 
[11] Anche in Gran Bretagna, punto di partenza comparativo di queste note, la musica è entrata nel novero degli oggetti di cui ci si può occupare – da sociologi o anche storici sociali – solo da pochi anni, come dimostra il caso esemplare di Eric Hobsbawm, che ha pubblicato originariamente (nel 1961) la sua Storia del jazz (Roma, Editori Riuniti 1982) sotto pseudonimo. Ma ancora negli anni ottanta, mi è stato riferito, era praticamente impossibile prendere un Ph.D in sociologia in una università di prestigio come Oxford con una tesi sulla musica rock. 
[12] Anche nel linguaggio comune si parla di «mondo della canzone» per intendere l’insieme di attori e processi sociali che presiedono alla creazione, fabbricazione e diffusione della canzone in quanto prodotto culturale: cfr. ad esempio Ionio (1968).
[13] Sviluppando le idee di Becker (1982) sull’arte come azione collettiva, la prospettiva della produzione culturale, elaborata soprattutto da Peterson (1994; 1997), mostra come la cultura sia letteralmente «fabbricata» da gruppi occupazionali e organizzazioni produttive operanti in determinati contesti sociali. La prospettiva è una sfida evidente nei confronti di quegli autori che cercano di comprendere e spiegare il lavoro creativo con l’ausilio di idee come genio o talento naturale, senza prestare attenzione alle specifiche condizioni che  consentono al talento di venire riconosciuto ed emergere.
[14] Non esiste ad oggi una compiuta «teoria della canzone» (non necessariamente una teoria sociologica) per quanto vi siano già diversi materiali con cui svilupparla  (cfr. ad esempio Lomax 1970; Denzin 1971; Fabbri 1981, 1996; Hennion 1982; Salvatore 1997, e, per una riflessione filosofica, Sgalambro 1997). Peraltro, esiste un’abbondante letteratura sulle modalità sociali di interpretazione dei significati testuali delle canzoni, che generalmente mostra come queste siano «consumate» senza una loro chiara percezione, indipendentemente da problemi di lingua: vedi ad esempio Hirsch (1971).
[15] Tra le altre norme identificate da Fabbri, su cui avremo modo di tornare: la sincerità (nel senso di autenticità), la difesa della privacy (a differenza dei divi dello spettacolo, compresa la canzone di consumo), l’attenzione al testo ecc.
[16] Estendendo alla musica alcuni risultati della sociologia della scienza, potremmo dunque dire che è conveniente trattare le norme dei generi musicali, più che come principi definitori degli stessi, come «vocabolari che vengono usati dai membri nel negoziare significati per le loro azioni e per quelle dei loro colleghi» (Mulkay 1979, trad. it. 1981, 135).
[17] Le posizioni di Adorno – che ha descritto in più occasioni la musica popular, la musica «leggera», e i particolare le canzoni come una merce standardizzata, prodotto essenziale dell’industria culturale, come tale prigioniera del suoi meccanismi di ricerca del profitto e di asservimento del pubblico (cfr. Adorno, Sulla popular music, a cura di M. Santoro, Roma, Armando 2004) – sono state presto recepite e abbondantemente diffuse in Italia, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, e nei circoli culturali della sinistra (cfr. in modo esemplare AA.VV 1964; 1978). Ma si tratta di posizioni che sono oggi ampiamente contestate per il loro esplicito etnocentrismo e normativismo (e per la forte carica ideologica che le anima): vedi in particolare, con richiami alla letteratura,  Middleton (1990), Longhurst (1995), Martin (1995) e Negus (1997).
[18] La canzone può essere così «canzonetta», «forma commerciale», «prodotto di consumo», «strumento di evasione», ma anche «importante fenomeno di costume», «mezzo espressivo», «strumento di cultura» o appunto «forma artistica»: ecco un campionario di etichette applicate socialmente alla canzone nella nostra cultura, che mostrano la pluralità di prospettive interpretative aperte a chi operi in un discorso avente la canzone come oggetto.
[19] Come è stato notato, un campo è una entità storica oltre che un concetto sociologico (Ferguson 1998, 598). Come noto, Bourdieu (1979; 1992) concepisce la società come differenziata in diversi campi semi-autonomi, di cui quelli economico e politico sono dominanti, ma quelli della produzione culturale (dal religioso all’artistico allo scientifico) sono però influenti nella misura in cui legittimano e mascherano il potere economico e politico. Se ciascun campo è governato dalle sue «regole del gioco», tutti sono però strutturati sull’opposizione tra un polo eteronomo che rappresenta il potere  (e il capitale) «economico» e un polo autonomo che rappresenta il capitale specifico di quel campo (artistico, o scientifico o altra specie di capitale culturale). 

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