Il testo che segue è stato scritto nel 2002, e parzialmente pubblicato ne "Il Mulino" con il titolo La musica, la sociologia e 40 milioni di italiani. Lo ripubblico qui, nella sua versione integrale, senza modifiche e senza aggiornamenti bibliografici (con una sola eccezione: la prima traduzione italiana, a cura e con introduzione di chi scrive, del classico saggio di Adorno On Popular Music). Mi sembra infatti che, nonostante la crescita di interesse per la sociologia della musica degli ultimi anni (si pensi ai libri sul jazz di Davide Sparti, al recente manuale di Lello Savonardo, agli studi su musica e tecnologie di Paolo Magaudda), la situazione degli studi in questo campo resti in Italia sostanzialmente quella descritta e criticata in questo ormai lontano testo. Ritornerò comunque sulla questione in un prossimo post.
E' lunedì
mattina, e in un’aula di una buona università inglese si raduna l’intero corpo
docente della locale school di studi
economici e sociali. L’occasione è di quelle speciali: l’interview per l'assunzione di un nuovo collega per l'area della
sociologia. Cinque candidati, tutti esterni, sono già stati preselezionati.
Puntuale, alle 9,30 il favorito inizia la sua “prova orale”, secondo gli usi
anglosassoni consistente in una lezione ai potenziali futuri colleghi, seguita
da un colloquio con una commissione ristretta. Smilzo,
giacca scura e cravatta, con un’aria che lo fa somigliare vagamente a Mark
Knopfler, il chitarrista dei Dire Straits, il candidato è uno studioso già
affermato di quella formazione trans- o post-disciplinare nota nel mondo come Popular Music.
Ma è come sociologo che
qui si presenta. All’uditorio spiega che la lezione verterà sulla costruzione
di scene musicali virtuali, e che il suo caso empirico è quello del
(cosiddetto) Canterbury Sound – espressione coniata alla fine degli anni
sessanta dalla stampa musicale inglese per descrivere un manipolo di gruppi e
musicisti (i nomi sono quelli di Caravan, Soft Machine, Robert Wyatt ecc.) che
in vario modo collegati alla storica cittadina inglese stavano inventando una
formula musicale ai confini tra (certo) jazz e (certo) rock. A suo tempo con
decine di imitatori (qualcuno anche in Italia), dalla metà degli anni novanta
questi musicisti stanno rivivendo la gloria delle origini, non più attraverso
gli applausi di pubblici adoranti ai concerti ma grazie ad una rete virtuale
che unisce migliaia di appassionati in tutto il mondo tra loro in contatto
attraverso siti web appositamente dedicati, in cui si condividono passioni, si
scambiano informazioni, dischi, e gadgets vari, e soprattutto si costruisce
discorsivamente e si mantiene socialmente l’idea stessa di qualcosa come un distinto
Canterbury Sound – una identità in realtà mitica, una pura “tradizione
inventata”, cui si farebbe fatica a trovare un preciso referente musicologico,
e alla cui costruzione il City Council
di Canterbury contribuisce in vari modi, consapevole degli effetti virtuosi che
da questa identità musicale possono riversarsi sull’identità (e l’economia)
della cittadina.
Come da
copione, la lezione è seguita dagli interventi e dalle domande di
chiarificazione, o di semplice curiosità, dei membri della school. Compreso il Dean, una nota studiosa di Government, che si limita ad un’unica semplice domanda: «ma ciò di
cui ci hai parlato e di cui scrivi è solo un oggetto di studio, o sei anche
personalmente coinvolto?» La risposta è in realtà scontata: «sì, suono la
chitarra in una rock band (che però non ha nulla a che fare con il Canterbury
Sound)». Alla
fine della giornata, dopo cinque lezioni e altrettante interviste individuali,
il vincitore del posto di sociologia viene reso noto: non è “quello” del
Canterbury Sound, ma un altro candidato, anche lui però studioso di cose
musicali, e in particolare dei rapporti tra copyright e produzione di musica. Un argomento complesso, in cui
sono in gioco concezioni ormai inveterate dell’arte e dell’artista, interessi
economici, regimi giuridici e, naturalmente, scelte politiche. Dei cinque il
candidato più giovane, quello con meno titoli e pubblicazioni in numero
assoluto (ha da poco terminato il PhD), ma la cui brillantezza espositiva ha
colpito i membri della School, che hanno deciso, come talvolta succede nelle
università inglesi, di preferirlo a candidati più anziani e di tutto rispetto,
concedendogli quella fiducia che in Italia si è soliti dare solo dopo un lungo
tirocinio accademico, e si è (almeno) quarantenni.
Quello
qui brevemente descritto è un evento come tanti a cui un qualunque
sociologo italiano potrebbe assistere come visiting professor in una università inglese . I
suoi (molteplici) significati non dovrebbero tuttavia sottovalutarsi o peggio
ancora smarrirsi tornando a casa. Intanto,
colpisce che di cinque candidati
ad un posto di sociologia, due si presentavano come specialisti in un’area,
quella della musica, che nel nostro paese resta stretto monopolio di una
disciplina specialistica come è la musicologia (e suoi affini), sui cui
caratteri di esclusività e tradizionalismo vi è ormai un’abbondante letteratura
anche nel nostro paese. Vale la pena aggiungere che la sociologia, disciplina
di competenza di chi scrive, che è nota viceversa (anche tristemente) per la
sua accentuata inclusività, non ha certo costituito sinora una seria minaccia a
questo preteso e invero reale monopolio. Nella (scarsa) misura in cui se ne è
interessata, la sociologia italiana ha sinora visto nella musica – tipicamente
quella cosiddetta «leggera» - solo un’occasione per discutere di altro: di una
genericamente definita condizione giovanile, o delle politiche culturali o più
spesso ancora giovanili (e per lo più locali), o
dell’uso del tempo libero, lasciando sostanzialmente inesplorato non solo
l’aspetto determinante della produzione musicale, ma anche quello – peraltro
essenziale per una adeguata comprensione di condizioni e politiche (giovanili o
meno) – della costituzione, proprio attraverso la musica, di identità e
gerarchie culturali.